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La donna e la musica: Pietro Morello – Medico della felicità
Scuro Chiaro

La donna e la musica: Pietro Morello – Medico della felicità

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Clara Schumann

LA DONNA

Pare quasi anacronistico dover trattare, nel XXI secolo, il tema della condizione della donna nella società, eppure è quantomeno necessario, vista la situazione attuale.

In un importante testo della Beauvoir emerge il pensiero per cui ogni individuo è, con una riflessione simile a quello di Sartre, una libertà autonoma; così lo è ogni donna, ma in modo diverso dagli uomini.

La donna è costretta alla riduzione all’immanenza, forzata e indotta a svilupparsi sottostando alla posizione a lei imposta dall’uomo, costretta quindi ad essere e a vedersi come “l’altro”.

La trascendenza è un pensiero che si riservano le coscienze, gli individui che vogliono mantenere la propria sovranità ed essenzialità, gli uomini.

Il dramma sta nella contraddizione fondamentale tra individui che, come è naturale, si pongono come essenziali, le donne; e altri che sostengono l’inessenzialità dei primi, gli uomini.

Data questa necessaria contraddizione si pone il problema di come le donne possano effettivamente realizzarsi come esseri umani e se la cosa risulta davvero possibile.

Siamo abituati a vedere nella storia, soprattutto negli ultimi 50 anni, tutti quei mutamenti che appaiono come segnali di un cambiamento più ampio che vede l’utopia della donna perfettamente indistinta dall’uomo, a livello di parità di diritti in ogni campo.

Un esempio concreto è quello del ruolo della donna nella musica: le donne, infatti, sono attive in quasi tutti gli aspetti della musica classica, come le esibizioni strumentali, vocali, la direzione orchestrale, la direzione di cori, la ricerca accademica e la composizione contemporanea. Tuttavia, proporzionalmente agli uomini, la loro rappresentanza e il loro riconoscimento, specialmente a livelli più alti, sono di gran lunga inferiori al loro numero. Per riconoscerle nella loro magnifica capacità, nonostante il fatto che siano oscurate da figure maschili, basta citare Jenny Lind, o la ancor più celebre Clara Shumann, moglie del rinomato compositore, attivissima nel periodo del romanticismo.

Tuttavia, perché sia efficace è sufficiente, a mio avviso, ridurre la trattazione a un periodo che inizia con il fascismo e da lì prosegue fino ad oggi: l’ideologia fascista, infatti, inquadrava le donne in una visione gerarchica del rapporto fra i sessi, dovuta all’enfatizzato culto della virilità, proprio della mentalità fascista.

Il regime promosse nuove misure concernenti i rapporti fra i sessi e i rapporti generazionali: è così cambiata l’intera struttura dei rapporti familiari. La famiglia era incoraggiata ad essere prolifica secondo una precisa politica di incremento demografico e ad essere collegata organicamente allo stato.

Qui abbiamo la nascita del “meraviglioso ed unico ruolo della donna di donare figli alla nazione”, un implicito e si spera involuto paragone ad una giovenca.

Vista anche la mutata figura dell’uomo, visto ora come lavoratore indipendente il cui salario era unica fonte di sostentamento per la famiglia, l’incubo di questi anni era la donna irresponsabile, spendacciona o, peggio, sterile. La mentalità fascista non è per nulla innovativa rispetto a quei topos culturali tipici del medioevo contadino per cui la donna è fragile e inadatta al lavoro, ma anzi li utilizza come terreno fertile per istituire questo nuovo modello familiare.

Anche le donne attive nel mondo fascista creavano imbarazzo ed erano minaccia, perciò o si era obbedienti donne di chiesa, simbolo di, umiltà e sacrificio, oppure obbedienti donne di casa, pronte a dare nuovi nati allo stato e a soddisfare il marito, è chiaro quindi il fattore comune tra i due idealtipi di donna.

Passando oltre cominciamo a intravedere i primi segni di reale cambiamento, la diffusione quindi di leggi che introducono al concetto di parità, come l’articolo 37 della costituzione (riguardante la parità di salario), la legge sul divorzio del ‘70, nel ‘71 l’estensione al diritto di maternità alle donne dipendenti, l’importante legge 194, sul diritto d’aborto nel ‘78, o le più recenti leggi che vedono la violenza sessuale non più come reato contro la morale, ma contro la persona, alla fine degli anni 90 e non prima.

Sorge spontaneo a questo punto del discorso un quesito: sono sufficienti queste leggi per considerare l’avvento degli anni 2000 come un punto di arrivo?

La risposta da parte mia è necessariamente negativa, altrimenti saremmo difronte a un tema storico e nulla più.

Ricollegandomi sempre ad un testo di de Beauvoir, che -ahimè – risuona ancora attuale, non basta l’accesso al voto o una serie di riconoscimenti formali a cambiare la condizione della donna, occorre piuttosto un mutamento profondo del tessuto sociale, dei rapporti, delle convenzioni; perché, come appunto sostiene la filosofa “donna non si nasce, si diventa”.

Se bastassero poche e piccole vittorie basterebbe anche ciò che la donna occupava come ruolo nella musica dell’antica Grecia, in cui sì la donna non poteva partecipare alla vita politica e alla quotidianità sociale, ma come voce e interprete andava benissimo per i canti di rito. Triste no?

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Letizia Brugnoli

Per concretizzare queste mie parole faccio riferimento ad un luogo comune caro alla nostra società: “ la donna ha voluto gli stessi diritti? Allora cominci a fare il muratore.” da questa frase, povera di contenuto e di analisi, si evince qual è il fulcro del problema, ci troviamo difronte infatti al riconoscimento formale dei pari diritti, ma non al mutamento sociale verso alle pari opportunità.

Ancora una volta, come nella scuola, risulta calzante la frase di don Milani, che nella sua Barbiana scrive “nulla è più sbagliato che fare parti uguali fra disuguali”; questo è il fulcro delle pari opportunità, tutti devono avere accesso agli stessi servizi, indistintamente, senza che nulla gli venga precluso a causa della loro persona, senza esser, per esempio, respinte da un datore di lavoro perché al colloquio è stata data una risposta affermativa alla domanda “vorrà in un futuro fare figli?”.

Sono questo tipo di domande che ancora rendono chiaro il problema, sono questi affronti alla dignità e all’eguaglianza di genere.

Occorre infine aprire una parentesi sulle possibili contestazioni, che in primo luogo vedono l’utilizzo di termini quali ad esempio “femminicidio” come primo fattore di divisione dei sessi, pretendendo perciò una presunta forma di uguaglianza che dovrebbe racchiudere ogni reato sotto il termine “omicidio”.

L’obiezione che sorge spontanea e che altro non è che un esempio tra molti, è il fatto che il femminicidio di per sé, a prescindere dalla sua radice etimologica, per cui indica genericamente l’omicidio di donne, è indice del motivo per cui è stato commesso l’omicidio, non sono del soggetto e dell’identità della vittima.

Mi spiego, una donna morta in un incidente, in una sparatoria o in un attentato non è “femminicidio”, ma bensì “omicidio”.

Il termine indica qualcosa di molto più specifico, triste e violento, indica infatti una donna uccisa perché non sottostava ai voleri malati e ancora attuali di un uomo, indica l’esemplificazione pratica del machismo e indica l’espressione di una società maschilista e patriarcale, in cui l’uomo ancora comanda e vince.

In conclusione, è necessario preservare l’identità di genere, la distinzione tra uomo e donna, la condizione di una società eterogenea e bella per questo; ma tutto ciò deve ancora subire lunghe trasformazioni prima che si arrivi al punto in cui due generi diversi nella stessa società siano posti su un piano orizzontale. Non sarà traguardo fino a che tutto questo non sarà storia.

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